I Malatesta di Rimini
Malatesta dalla Penna (1156-1248) fu il primo esponente della famiglia di un certo rilievo che fu investito cavaliere dall'imperatore Federico II di Svevia verso il 1226 e diventò podestà di Rimini nel 1239. Da lui nacque Malatesta da Verucchio (1212-1312) detto il “Centenario”, il Mastin Vecchio del XXVII Canto dell’Inferno, che ci viene descritto come un uomo solido, poderoso, di capelli e barba fulvi, occhi azzurri e profilo aquilino. Fu lui a gettare le basi di un potere reale e ufficiale sulla città di Rimini che si concretizza ufficialmente nel 1295: il 13 dicembre di quell’anno, nel giorno di Santa Lucia, avviene una lotta sanguinosa nel corso della quale l’astuto Mastin Vecchio, di fazione guelfa, sconfigge e caccia da Rimini il ghibellino Parcitade de’ Parcitadi, che deve così riparare nel castello di San Marino. Tutti i ghibellini riminesi decidono quindi di rifugiarsi nel castello di Sogliano presso il conte Giovanni Malatesta, fratello di Malatesta da Veruccchio, che parteggia per la fazione fazione ghibellina.
Mentre questi fuoriuscuti cominciano già a meditare vendetta, la città di Rimini passa definitivamente nelle mani dei Malatesta, e precisamente in quelle del figlio del Mastin Vecchio, cioè Malatestino dall’Occhio. Malatestino governa fino al 1317, anno in cui muore, forse avvelenato, nel suo palazzo di Fossombrone, lasciando il governo di Cesena al figlio Ferrantino e la signoria di Rimini al fratello Pandolfo I (ca.1267-1326), ultimo dei figli del Centenario, che riabilita in parte la truce fama della famiglia. Pandolfo eredita dal padre la prestanza fisica e la capacità di prestigio che lo porta a ricevere dal papa il conferimento del titolo di cavaliere; inoltre ci viene descritto con occhi e capelli neri e oltretutto dotato di una efficace dialettica. Pandolfo abbellisce Rimini e Gradara ma viene molto odiato a Pesaro; muore nel 1326 a causa di una febbre maligna, lasciando il potere ai due figli: Galeotto, in seguito detto il Grande, e Malatesta Guastafamiglia, detto anche l’Antico.
Queste inevitabili divisioni portano a un complesso periodo di lotte feroci tra i diversi rami della famiglia e mentre Malatesta Guastafamiglia darà origine al ramo pesarese della casata, la discendenza di suo fratello Galeotto dà origine al ramo romagnolo.
Galeotto il Grande (1299-1385) subentra al padre Pandolfo I nel 1326 e diventa un illustre politico e valoroso condottiero e capitano di ventura. Caratteristica inedita per un Malatesta, Galeotto si mostra molto leale verso la famiglia e intraprende un viaggio al Santo Sepolcro di Gerusalemme che lo tiene lontano dai suoi domini per tre anni e mezzo. Scomunicato nel dicembre 1353 da Innocenzo VI, pur assecondando i suoi personali interessi riesce in seguito riconquistare il favore del pontefice che lo nomina Gonfaloniere Generale della Chiesa (1355) e Senatore Romano (1368). Oltre a Rimini, possiede Cesena, Cesenatico e Cervia (che conquista all’età di 80 anni). Muore a Cesena nel 1385 e la sua salma viene portata con gran pompa a Rimini.
Dopo di lui la Signoria passa ai suoi quattro figli maschi: a Carlo viene assegnata Rimini e dunque il ruolo di capofamiglia, a Pandolfo III vengono destinati Fano e la Marca, ad Andrea Cesena, Cervia e Bertinoro, mentre a Galeotto Belfiore toccano Meldola, Borgo Santo Stefano, Sestino e Montefiore.
Con Carlo (1368-1429) la potenza malatestiana raggiunge il suo apogeo. Ben visto da Papa Bonifacio IX e stimato dalle diverse signorie sempre in lotta tra loro, diventa uno degli arbitri della politica italiana, assumendo addirittura una parte notevole nella composizione dello scisma tra il papato di Roma e quello di Avignone; diventerà infatti determinante nel Concilio di Costanza del 1414-1418 indetto per decidere le sorti della Chiesa. Carlo è stato definito “giusto, savio, gagliardo”, ma si ricordano anche gli eccessi del suo spirito puritano. Anche il periodo di Carlo e dei suoi fratelli è contraddistinto dal frenetico gioco delle alleanze, che si spinge fino a Milano e a Venezia. Il suo Vicariato è davvero un capolavoro di abilità politica. Approfittando del collasso del ducato di Milano, i Malatesta aggiungono al proprio dominio anche Brescia (1404) e Bergamo (1408) che tuttavia restano nelle loro mani solo una quindicina d’anni.
Durante la permanenza a Brescia, Pandolfo III, che governa quelle terre insieme a Fano, genera due figli (Sigismondo e Domenico detto Novello) con la sua bellissima amante, Antonia da Barignano, una figliolanza illegittima destinata però a lasciare un segno indelebile nella storia della signoria. Quando infatti Pandolfo muore, nel 1427, il fratello Carlo (che non ha figli) governa saggiamente e si prende cura dei due rampolli, ma anche di Roberto, nato da una relazione di Pandolfo con la cesenate Allegra dei Mori, e ne fa i propri eredi.
Il dominio dei Malatesta si estende su tutta la valle del Marecchia, da Rimini a Borgo San Sepolcro, nell’alta valle del Tevere; inoltre sono state riconquistate Santarcangelo, Sant’Agata, Pennabilli, San Leo, Maiolo, Talamello e molti castelli del Montefeltro. La difficile eredità passa si ripercuote sulle giovani spalle dei tre nipoti che con molte difficoltà lo zio è riuscito a legittimare davanti al papa: Roberto ha 18 anni, Sigismondo 12 e Domenico (Novello) 11. A Roberto, il maggiore, detto il “beato” (1411-1432) tocca il ruolo di capofamiglia, ma il suo mandato è assai breve. Assai diverso per tempra e aspirazioni dagli altri Malatesta, mite e generoso, tendente al misticismo e del tutto inadatto al suo compito, muore a vent'anni, nel 1432, assistendo impotente alle mire dei Malatesta di Pesaro.
La sorte porta dunque a capo della famiglia il giovane Sigismondo Pandolfo (1417-1468), appena quindicenne, nel 1432: con lui lo splendore della famiglia brillerà di un fuoco che il tempo non ha potuto spegnere, anche se il saggista statunitense Ezra Pound l’ha definito “il miglior perdente della storia”. Spregiudicato e coraggioso quanto l’antico avo detto il Centenario, Sigismondo eredita da lui anche la forte fibra e l’aspetto fisico: è infatti rosso di capelli con acuti occhi azzurri. Un famoso ritratto di Piero della Francesca custodito al Louvre di Parigi ce lo mostra con le palpebre abbassate su uno sguardo che si immagina imperioso, il mento volitivo, il collo forte e il naso adunco dei Malatesta. Magnifico e regale, celebre condottiero, abile governante e mecenate sagace, è l’indiscusso animatore di una delle più eleganti corti dell’Italia quattrocentesca.
Oltre che Federico da Montefeltro, appartenente alla casa dei nemici naturali dei Malatesta, Sigismondo ha un altro acerrimo nemico, Papa Pio II, l’ex cardinale Enea Silvio Piccolomini di Siena, di cui dovrebbe essere suddito e vassallo, ma che nel Natale del 1460 lo scomunica. Sono proprio gli attacchi congiunti di Federico e Pio II, su uno sfondo di guerre infinite che spostano continuamente i confini dei territori malatestiani, a decretare la fine dello splendido signore di Rimini che prima perde Verucchio e poi, nel 1462, subisce una dura disfatta che lo costringe a ritirarsi nella sua Rimini, divenuta ormai il ristretto confine di un regno assai precario.
Sigismondo muore nell’autunno del 1468, appena cinquantunenne, forse di una febbre malarica contratta durante la sua ultima campagna contro i Turchi, a cui partecipò allo scopo di riconquistare il favore del Papa. Si dice che abbia ceduto l’anima tra le braccia dell’amata Isotta degli Atti (sua terza moglie), la giovinetta ormai adulta e sua sposa, di cui si era innamorato quando lei aveva appena 11 anni e che ha amato per tutta la vita, una passione che in precedenza non gli aveva impedito di sposarsi due volte: con Ginevra d’Este, figlia di Nicolò duca di Ferrara e della sfortunata Parisina, e con Polissena, figlia di Francesco Sforza che diventerà duca di Ferrara. Sigismondo lascia a Rimini le testimonianze più fulgide del potere malatestiano: Castel Sismondo e il Tempio Malatestiano dedicato a San Francesco.
Roberto, detto il “Magnifico” (1440-1482), nasce da Sigismondo e da una sua amante danese, Vannetta dei Toschi, ma viene legittimato dal papa Nicolò V e nonostante l’eredità lasciata da Sigismondo a Sallustio, figliastro prediletto di Isotta, alla morte del padre nel 1468 cerca di rivendicare lo scettro della casata quale primogenito. Degno figlio di suo padre in quanto vile opportunismo, mostra immediatamente doti di grande condottiero e stratega politico facendosi amici i tradizionali rivali della sua casata, fra cui lo stesso Federico da Montefeltro di cui sposa, con grande fasto, la figlioletta decenne Elisabetta.
Roberto non solo, dunque, possiede Rimini (sia Sallustio che il fratello più piccolo, Valerio, vengono assassinati da mano ignota non senza lasciar cadere atroci sospetti sullo stesso Roberto) ma riesce a riconquistare parte delle terre perdute da Sigismondo, combattendo al servizio dei Veneziani ed è insignito del titolo di “Magnifico”. Ma la sorte aspetta al varco Roberto al culmine della gloria quando, come condottiero papale, vittorioso nella famosa battaglia di Campomorto dove sbaraglia la pericolosa coalizione tra Fiorentini, Napoletani e Milanesi, si appresta ad entrare trionfante in Roma. Anziché il trionfo a Roma lo attende, appena quarantenne, la morte: entra infatti nella città eterna in un palanchino e, forse per un accesso di malaria, vi muore qualche giorno dopo. Viene sepolto in Vaticano, mentre una piazza e una strada della capitale ricordano il suo nome. Nel Museo Nazionale del Louvre si conserva l’immagine del principe guerriero a cavallo, attorniato da scudieri in armi.
Figlio illegittimo di Roberto e di Isabella Aldobrandini, Pandolfo IV detto “Pandolfaccio” (1475-1534), si trova a raccogliere l’eredità paterna nel 1482, ad appena sette anni. Data la sua giovane età il governo viene affidato a Raimondo Malatesta che chiama al suo fianco il fratello Galeotto, ma ben presto il Malatesta, al quale il destino sembra aver affidato l’ingrato compito di segnare l’ultimo atto di una grande signoria, trova il modo di catapultarsi in prima persona sulla scena e lo fa nel peggiore dei modi, con un delitto. Ad appena 13 anni, cedendo al vizio più nero dei suoi antenati, ma senza mostrare neppure uno dei loro pregi, durante una festa in maschera, uccide lo zio Raimondo di cui mal sopporta l’autorità. Poco più tardi fa assassinare anche Guido dei Conti di Bagno, accusato di aver tramato contro di lui. Questi delitti, a cui se ne aggiungono altri in un’atmosfera torbida di intrighi e il palesarsi di altri suoi difetti di carattere, lo rendono così inviso che si guadagna l’appellativo di Pandolfaccio.
La fine, comunque, si avvicina sotto le sembianze di un altro principe intelligente, ambizioso e spregiudicato come lo erano stati alcuni suoi antenati: Cesare Borgia (1475-1507), duca di Valentinois. Figlio del papa Alessandro VI, che con la scusa che i pagamenti per i vicariati sono rimasti insoluti lo invia alla conquista della Romagna, il Valentino fa il suo ingresso in Rimini il 30 ottobre del 1500, scortato da 2.000 cavalieri e 10.000 fanti e salutato da tutti come un liberatore. Pandolfo esce per la porta del Gattolo, raggiunge il mare e scappa a Venezia.
Il Borgia resta in Romagna tre anni. Tramontato il suo tentativo unitario la Romagna precipita nuovamente nel vecchio particolarismo. Pandolfo riesce a tornare a Rimini ma si rende conto che non gli sarà possibile mantenerne il possesso; pertanto ricorre a Venezia con cui apre una trattativa per la vendita di tutti i suoi possedimenti. Le terre malatestiane passano così alla Serenissima (che poi deve restituirli alla Chiesa), e gli eredi del tenace Centenario e del fulgido Sigismondo, dopo altri sporadici e inefficaci tentativi di ricostruire la signoria, passano, a vario titolo, al servizio dei Veneziani e dei Ferraresi.
Dopo un primo tentativo ordito da Sigismondo, figlio di Pandolfaccio, nel 1522, l’ultimo capitolo si consuma dopo il sacco di Roma, nel giugno 1527: lo stesso Sigismondo, travestito da contadino, entra in città e la occupa con il sostegno popolare, ma dopo vari atti di vendette, corruzione, estorsioni e uccisioni, intervengono le truppe pontificie che cacciano definitivamente da Rimini Pandolfaccio e suo figlio. Spezzato definitivamente il ramo riminese, sopravvive però un altro baluardo malatestiano: quello di Sogliano.
Mentre questi fuoriuscuti cominciano già a meditare vendetta, la città di Rimini passa definitivamente nelle mani dei Malatesta, e precisamente in quelle del figlio del Mastin Vecchio, cioè Malatestino dall’Occhio. Malatestino governa fino al 1317, anno in cui muore, forse avvelenato, nel suo palazzo di Fossombrone, lasciando il governo di Cesena al figlio Ferrantino e la signoria di Rimini al fratello Pandolfo I (ca.1267-1326), ultimo dei figli del Centenario, che riabilita in parte la truce fama della famiglia. Pandolfo eredita dal padre la prestanza fisica e la capacità di prestigio che lo porta a ricevere dal papa il conferimento del titolo di cavaliere; inoltre ci viene descritto con occhi e capelli neri e oltretutto dotato di una efficace dialettica. Pandolfo abbellisce Rimini e Gradara ma viene molto odiato a Pesaro; muore nel 1326 a causa di una febbre maligna, lasciando il potere ai due figli: Galeotto, in seguito detto il Grande, e Malatesta Guastafamiglia, detto anche l’Antico.
Queste inevitabili divisioni portano a un complesso periodo di lotte feroci tra i diversi rami della famiglia e mentre Malatesta Guastafamiglia darà origine al ramo pesarese della casata, la discendenza di suo fratello Galeotto dà origine al ramo romagnolo.
Galeotto il Grande (1299-1385) subentra al padre Pandolfo I nel 1326 e diventa un illustre politico e valoroso condottiero e capitano di ventura. Caratteristica inedita per un Malatesta, Galeotto si mostra molto leale verso la famiglia e intraprende un viaggio al Santo Sepolcro di Gerusalemme che lo tiene lontano dai suoi domini per tre anni e mezzo. Scomunicato nel dicembre 1353 da Innocenzo VI, pur assecondando i suoi personali interessi riesce in seguito riconquistare il favore del pontefice che lo nomina Gonfaloniere Generale della Chiesa (1355) e Senatore Romano (1368). Oltre a Rimini, possiede Cesena, Cesenatico e Cervia (che conquista all’età di 80 anni). Muore a Cesena nel 1385 e la sua salma viene portata con gran pompa a Rimini.
Dopo di lui la Signoria passa ai suoi quattro figli maschi: a Carlo viene assegnata Rimini e dunque il ruolo di capofamiglia, a Pandolfo III vengono destinati Fano e la Marca, ad Andrea Cesena, Cervia e Bertinoro, mentre a Galeotto Belfiore toccano Meldola, Borgo Santo Stefano, Sestino e Montefiore.
Con Carlo (1368-1429) la potenza malatestiana raggiunge il suo apogeo. Ben visto da Papa Bonifacio IX e stimato dalle diverse signorie sempre in lotta tra loro, diventa uno degli arbitri della politica italiana, assumendo addirittura una parte notevole nella composizione dello scisma tra il papato di Roma e quello di Avignone; diventerà infatti determinante nel Concilio di Costanza del 1414-1418 indetto per decidere le sorti della Chiesa. Carlo è stato definito “giusto, savio, gagliardo”, ma si ricordano anche gli eccessi del suo spirito puritano. Anche il periodo di Carlo e dei suoi fratelli è contraddistinto dal frenetico gioco delle alleanze, che si spinge fino a Milano e a Venezia. Il suo Vicariato è davvero un capolavoro di abilità politica. Approfittando del collasso del ducato di Milano, i Malatesta aggiungono al proprio dominio anche Brescia (1404) e Bergamo (1408) che tuttavia restano nelle loro mani solo una quindicina d’anni.
Durante la permanenza a Brescia, Pandolfo III, che governa quelle terre insieme a Fano, genera due figli (Sigismondo e Domenico detto Novello) con la sua bellissima amante, Antonia da Barignano, una figliolanza illegittima destinata però a lasciare un segno indelebile nella storia della signoria. Quando infatti Pandolfo muore, nel 1427, il fratello Carlo (che non ha figli) governa saggiamente e si prende cura dei due rampolli, ma anche di Roberto, nato da una relazione di Pandolfo con la cesenate Allegra dei Mori, e ne fa i propri eredi.
Il dominio dei Malatesta si estende su tutta la valle del Marecchia, da Rimini a Borgo San Sepolcro, nell’alta valle del Tevere; inoltre sono state riconquistate Santarcangelo, Sant’Agata, Pennabilli, San Leo, Maiolo, Talamello e molti castelli del Montefeltro. La difficile eredità passa si ripercuote sulle giovani spalle dei tre nipoti che con molte difficoltà lo zio è riuscito a legittimare davanti al papa: Roberto ha 18 anni, Sigismondo 12 e Domenico (Novello) 11. A Roberto, il maggiore, detto il “beato” (1411-1432) tocca il ruolo di capofamiglia, ma il suo mandato è assai breve. Assai diverso per tempra e aspirazioni dagli altri Malatesta, mite e generoso, tendente al misticismo e del tutto inadatto al suo compito, muore a vent'anni, nel 1432, assistendo impotente alle mire dei Malatesta di Pesaro.
La sorte porta dunque a capo della famiglia il giovane Sigismondo Pandolfo (1417-1468), appena quindicenne, nel 1432: con lui lo splendore della famiglia brillerà di un fuoco che il tempo non ha potuto spegnere, anche se il saggista statunitense Ezra Pound l’ha definito “il miglior perdente della storia”. Spregiudicato e coraggioso quanto l’antico avo detto il Centenario, Sigismondo eredita da lui anche la forte fibra e l’aspetto fisico: è infatti rosso di capelli con acuti occhi azzurri. Un famoso ritratto di Piero della Francesca custodito al Louvre di Parigi ce lo mostra con le palpebre abbassate su uno sguardo che si immagina imperioso, il mento volitivo, il collo forte e il naso adunco dei Malatesta. Magnifico e regale, celebre condottiero, abile governante e mecenate sagace, è l’indiscusso animatore di una delle più eleganti corti dell’Italia quattrocentesca.
Oltre che Federico da Montefeltro, appartenente alla casa dei nemici naturali dei Malatesta, Sigismondo ha un altro acerrimo nemico, Papa Pio II, l’ex cardinale Enea Silvio Piccolomini di Siena, di cui dovrebbe essere suddito e vassallo, ma che nel Natale del 1460 lo scomunica. Sono proprio gli attacchi congiunti di Federico e Pio II, su uno sfondo di guerre infinite che spostano continuamente i confini dei territori malatestiani, a decretare la fine dello splendido signore di Rimini che prima perde Verucchio e poi, nel 1462, subisce una dura disfatta che lo costringe a ritirarsi nella sua Rimini, divenuta ormai il ristretto confine di un regno assai precario.
Sigismondo muore nell’autunno del 1468, appena cinquantunenne, forse di una febbre malarica contratta durante la sua ultima campagna contro i Turchi, a cui partecipò allo scopo di riconquistare il favore del Papa. Si dice che abbia ceduto l’anima tra le braccia dell’amata Isotta degli Atti (sua terza moglie), la giovinetta ormai adulta e sua sposa, di cui si era innamorato quando lei aveva appena 11 anni e che ha amato per tutta la vita, una passione che in precedenza non gli aveva impedito di sposarsi due volte: con Ginevra d’Este, figlia di Nicolò duca di Ferrara e della sfortunata Parisina, e con Polissena, figlia di Francesco Sforza che diventerà duca di Ferrara. Sigismondo lascia a Rimini le testimonianze più fulgide del potere malatestiano: Castel Sismondo e il Tempio Malatestiano dedicato a San Francesco.
Roberto, detto il “Magnifico” (1440-1482), nasce da Sigismondo e da una sua amante danese, Vannetta dei Toschi, ma viene legittimato dal papa Nicolò V e nonostante l’eredità lasciata da Sigismondo a Sallustio, figliastro prediletto di Isotta, alla morte del padre nel 1468 cerca di rivendicare lo scettro della casata quale primogenito. Degno figlio di suo padre in quanto vile opportunismo, mostra immediatamente doti di grande condottiero e stratega politico facendosi amici i tradizionali rivali della sua casata, fra cui lo stesso Federico da Montefeltro di cui sposa, con grande fasto, la figlioletta decenne Elisabetta.
Roberto non solo, dunque, possiede Rimini (sia Sallustio che il fratello più piccolo, Valerio, vengono assassinati da mano ignota non senza lasciar cadere atroci sospetti sullo stesso Roberto) ma riesce a riconquistare parte delle terre perdute da Sigismondo, combattendo al servizio dei Veneziani ed è insignito del titolo di “Magnifico”. Ma la sorte aspetta al varco Roberto al culmine della gloria quando, come condottiero papale, vittorioso nella famosa battaglia di Campomorto dove sbaraglia la pericolosa coalizione tra Fiorentini, Napoletani e Milanesi, si appresta ad entrare trionfante in Roma. Anziché il trionfo a Roma lo attende, appena quarantenne, la morte: entra infatti nella città eterna in un palanchino e, forse per un accesso di malaria, vi muore qualche giorno dopo. Viene sepolto in Vaticano, mentre una piazza e una strada della capitale ricordano il suo nome. Nel Museo Nazionale del Louvre si conserva l’immagine del principe guerriero a cavallo, attorniato da scudieri in armi.
Figlio illegittimo di Roberto e di Isabella Aldobrandini, Pandolfo IV detto “Pandolfaccio” (1475-1534), si trova a raccogliere l’eredità paterna nel 1482, ad appena sette anni. Data la sua giovane età il governo viene affidato a Raimondo Malatesta che chiama al suo fianco il fratello Galeotto, ma ben presto il Malatesta, al quale il destino sembra aver affidato l’ingrato compito di segnare l’ultimo atto di una grande signoria, trova il modo di catapultarsi in prima persona sulla scena e lo fa nel peggiore dei modi, con un delitto. Ad appena 13 anni, cedendo al vizio più nero dei suoi antenati, ma senza mostrare neppure uno dei loro pregi, durante una festa in maschera, uccide lo zio Raimondo di cui mal sopporta l’autorità. Poco più tardi fa assassinare anche Guido dei Conti di Bagno, accusato di aver tramato contro di lui. Questi delitti, a cui se ne aggiungono altri in un’atmosfera torbida di intrighi e il palesarsi di altri suoi difetti di carattere, lo rendono così inviso che si guadagna l’appellativo di Pandolfaccio.
La fine, comunque, si avvicina sotto le sembianze di un altro principe intelligente, ambizioso e spregiudicato come lo erano stati alcuni suoi antenati: Cesare Borgia (1475-1507), duca di Valentinois. Figlio del papa Alessandro VI, che con la scusa che i pagamenti per i vicariati sono rimasti insoluti lo invia alla conquista della Romagna, il Valentino fa il suo ingresso in Rimini il 30 ottobre del 1500, scortato da 2.000 cavalieri e 10.000 fanti e salutato da tutti come un liberatore. Pandolfo esce per la porta del Gattolo, raggiunge il mare e scappa a Venezia.
Il Borgia resta in Romagna tre anni. Tramontato il suo tentativo unitario la Romagna precipita nuovamente nel vecchio particolarismo. Pandolfo riesce a tornare a Rimini ma si rende conto che non gli sarà possibile mantenerne il possesso; pertanto ricorre a Venezia con cui apre una trattativa per la vendita di tutti i suoi possedimenti. Le terre malatestiane passano così alla Serenissima (che poi deve restituirli alla Chiesa), e gli eredi del tenace Centenario e del fulgido Sigismondo, dopo altri sporadici e inefficaci tentativi di ricostruire la signoria, passano, a vario titolo, al servizio dei Veneziani e dei Ferraresi.
Dopo un primo tentativo ordito da Sigismondo, figlio di Pandolfaccio, nel 1522, l’ultimo capitolo si consuma dopo il sacco di Roma, nel giugno 1527: lo stesso Sigismondo, travestito da contadino, entra in città e la occupa con il sostegno popolare, ma dopo vari atti di vendette, corruzione, estorsioni e uccisioni, intervengono le truppe pontificie che cacciano definitivamente da Rimini Pandolfaccio e suo figlio. Spezzato definitivamente il ramo riminese, sopravvive però un altro baluardo malatestiano: quello di Sogliano.